Che il 70% del nostro pianeta sia ricoperto d’acqua lo studiamo a scuola fin da bambini. E’ una consapevolezza che ci lascia sempre un po’ spiazzati, che ci fa sentire piccoli. E che dovrebbe accompagnarci per tutta la vita con il suo portato di responsabilità: avvelenare il mare significa avvelenare il pianeta. Avvelenare il pianeta significa morire anche noi.
Eppure c’è una smania di conquista, una sorta di consumismo bulimico verso la natura che sembra essere scritto nel nostro DNA. Non riusciamo a comprendere davvero che ciò che ci permette di vivere non è “nostro” in senso di possesso, appartenenza e sfruttamento, ma è nostro nella misura in cui può esserlo un figlio: qualcosa di cui dobbiamo incoraggiare la crescita e il benessere.
Gli idrocarburi sono ancora un problema: limitandoci al Mare Nostrum, al Mediterraneo, lì vengono sversate tra le 100 e le 150mila tonnellate di idrocarburi ogni anno, frutto di incidenti o – molto più semplicemente – di pulizia delle imbarcazioni. E in questo bacino da cartolina, di cui ci piace fotografare i fondali trasparenti e sul quale si aprono tramonti dorati, si trova la più alta percentuale di catrame pelagico al mondo: 10 volte più che in Giappone e 50 volte più che nel Golfo del Messico.
Oggi, però, il problema più urgente da risolvere è quello delle plastiche. Si parla di 8 milioni di tonnellate scaricate nelle acque del pianeta ogni anno; un trend che – se non dovessimo riuscire a porvi rimedio – farà sì che nel 2050, in termini di peso, ci saranno in mare più bottiglie che pesci. Ed è quasi incredibile che non sia già così, considerando che in questo preciso momento la quantità di plastiche stimate in mare dovrebbe aggirarsi intorno ai 150 milioni di tonnellate. Anche in questo caso, ahimè, il Mediterraneo detiene un triste primato: con 731 tonnellate di rifiuti plastici buttati nelle sue acque ogni giorno (ogni giorno!) e, anche, con una presenza di microplastiche (i pezzi inferiori a 5 millimetri) tra le più alte al mondo. Microplastiche che, ingoiate dai pesci, finiscono direttamente nei nostri piatti. Non a caso presenze di microplastiche si rilevano nel 18,2 % dei tonni e dei pesci spada pescati nel Mediterraneo. E le possibili conseguenze sull’uomo vanno dalle malformazioni del feto fino al cancro.
Visto così non è un allarme: è l’anticamera dell’apocalisse.
Non c’è più tempo per preoccuparsi degli interessi di parte, bisogna agire.
Una risposta – poetica – è quella dell’arte. L’arte si muove su terreni propri, trasversali e misteriosi. Ma spesso è proprio attraverso il pensiero creativo, quello che osa fuori dal quadrato, che si finiscono per trovare le soluzioni. O, quantomeno, uno stimolo potente alla riflessione.
Alessandro Casetti e Roberto Giordani ci provano con questa mostra il cui titolo, già, gioca di sponda tra emozione e ragione. L’amore e l’amarezza, la grandiosità del mare e la misteriosa inesorabilità delle maree sono tutte in queste poche lettere ripetute come un mantra. A suggerire che forse davvero solo l’amore (per la nostra Terra, per i nostri figli, per gli altri e per noi stessi), insieme alla poesia e alla magia, potrebbe rappresentare la soluzione. O addirittura la salvezza.
Ha la scultura nel sangue, Roberto Giordani. Figlio di un fabbro, ha passato i momenti chiave della sua infanzia in una fornace, a guardare fuoco e ferro che diventavano racconto. La sua favola per questa mostra ha voluto narrarla con la coerenza di chi ama i materiali e ne rispetta la storia e le vicissitudini, ha scelto infatti di utilizzare soprattutto pezzi di recupero e il loro vissuto si respira davanti a queste opere dal potente impatto visivo.
Figurativo per vocazione, Giordani è in realtà un artista dalla profonda vena concettuale. Prendiamo un’opera emblematica come Involucro, per esempio. Se lo slancio verticale fa del pesce una sorta di monumento encomiastico, le placche di ferro di cui è composto raccontano una storia diversa: di frammentazione, di ferite, di sofferenza e di morte. Sono tutte lastre ossidate, martoriate, caratterizzate da margini irregolari come se fossero il risultato di un’ideale strappo, di una lacerazione. Ma il punto è che ciò che le tiene insieme è anche l’arma che le ferisce. Come un San Sebastiano, infatti, questo pesce ci mostra un corpo trafitto da un’infinità di spine, che lo mantengono compatto sì, ma al tempo stesso ne provocheranno la morte. Il gioco simbolico e semantico di Roberto Giordani è sofisticato e sottilissimo. I piani di lettura si moltiplicano, si aprono uno dentro l’altro come scatole cinesi. Ogni nuovo sguardo, ogni nuova angolazione, apre orizzonti e significati diversi. Ecco che le spine non sono spine, ma sottili sbarre d’acciaio dalla sezione esagonale su ognuna delle quali è impressa la sigla di un diverso tipo di plastica: dal PP al PVC. Dunque questa figura drammatica, quasi antica nella tortura che le viene inferta, assume significati nuovi nella scelta di indicare la plastica come uno dei maggiori responsabili dell’inquinamento dei mari e, di conseguenza, della distruzione della loro fauna. Eppure tutto questo non prescinde mai da una precisa attenzione agli equilibri, da un amore per la forma e per la sua eleganza che affonda le radici nella grande storia dell’arte.
In un’opera imponente come Pesce martello, dove le dimensioni delle placche si fanno sinfonia di luci e di cromie metalliche, l’artista si lascia tentare da un’iconografia allusiva, con l’animale che assume la grandiosità di un misterioso velivolo alieno. Ma nelle opere più piccole il gioco si fa forse ancora più intrigante. E’ lì che tutta la voglia di Giordani di giocare con i materiali si scatena. Pietra, legno, ceramica e anche plastica ingaggiano con il ferro dialoghi serrati come duelli. Accade nella Razza, delicato fossile di un passato prossimo venturo, dove la lisca lucida e apparentemente ancora guizzante riposa su un letto di ferro ossidato e scabro. E accade nello scheletro di pesce dalla testa bianca. Qui la poesia concettuale di Giordani riesce nel miracolo di fondere brutalità e grazia. Il metallo della lisca è durezza e morte, è scuro e crudele, mutilato anche. Ma quella testa in ceramica candida e quella coda svettante come un’ala hanno la potenza della redenzione. E c’è qualcosa di commovente e di solenne in questa figura finita e tuttavia eroica, in questo fantasma di un tempo che fu, forse reperto di un paradiso terrestre perduto per sempre troppo tempo fa.
Giordani non ci dice se per il nostro mare ci sia ancora una speranza: non lo sa e forse non vuole saperlo, troppo spaventato da quella che potrebbe essere la risposta. Ce ne mostra però la bellezza più nascosta. I resti come antiche effigi di dei di un mondo scomparso. Sta a noi, ora, decidere se questi dei meritino ancora il nostro rispetto o se la nostra arroganza e la nostra tracotanza saranno destinate a seppellirli – e a seppellirci – per sempre.